Al momento stai visualizzando Chiedere di essere torturati per dimostrare le proprie ragioni
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Nel Medioevo e nell’età moderna, esisteva una pratica giudiziaria sorprendente che potrebbe lasciarci perplessi oggi: le persone potevano chiedere di essere torturate.




Questa richiesta, che a prima vista sembra assurda, deve essere contestualizzata nel tempo in cui avveniva. Dobbiamo evitare l’errore comune di giudicare il passato con gli occhi del presente, soprattutto quando consideriamo una società come quella del 1600, radicalmente diversa dalla nostra per condizioni, opportunità e strumenti tecnologici.

All’epoca, non esistevano gli strumenti investigativi che diamo per scontati oggi, come l’analisi del DNA o delle impronte digitali. In questo contesto, la tortura era vista come uno strumento processuale legittimo, poiché le dichiarazioni fatte sotto tortura avevano valore di prova. Se un’accusato non poteva fornire prove concrete a sostegno della sua innocenza, poteva chiedere di essere sottoposto a tortura per dimostrare di avere ragione, basandosi sulla convinzione che Dio non avrebbe permesso a un innocente di soccombere sotto la tortura né avrebbe aiutato un colpevole a resistere.
Questa credenza radicata nella fede influenzava profondamente la resilienza psicologica degli individui. Secondo la psicologia moderna, la convinzione che una forza superiore ti assista può effettivamente renderti più resistente, mentre il dubbio sulla sua protezione potrebbe indebolirti. Così, in un’epoca priva degli strumenti tecnici moderni, la tortura era considerata un metodo per cercare la verità, un equivalente rudimentale delle odierne tecniche forensi.
In questo contesto, non era insolito che la parte lesa, in mancanza di prove tangibili, potesse chiedere di essere sottoposto a tortura. Consideriamo l’esempio di un individuo che accusa un altro di avergli rubato le pecore: in assenza di testimoni o prove materiali, come avrebbe potuto dimostrare la veridicità delle sue affermazioni?
Il contesto religioso e culturale dell’epoca giocava un ruolo fondamentale in questa prassi. La convinzione diffusa era che la divinità non avrebbe abbandonato un innocente durante la tortura né avrebbe concesso a un colpevole di superarla senza confessare. Questo metodo, per quanto arcaico e crudele agli occhi moderni, era allineato con la logica e le credenze del tempo.
La giustizia civile e quella religiosa avevano approcci diversi all’uso della tortura, con l’Inquisizione che imponeva limiti severi per evitare eccessi di crudeltà, a differenza della giustizia civile, dove meno vincoli erano in atto. Anche i testimoni potevano essere sottoposti a tortura, nel caso il giudice volesse accertare la veridicità delle loro testimonianze.
L’approccio alla tortura rifletteva la necessità di un meccanismo per risolvere i casi legali in cui le prove erano insufficienti o inesistenti. La richiesta di tortura da parte della parte lesa era quindi un tentativo disperato, ma coerente con la mentalità dell’epoca, di ricercare la giustizia in un contesto dove le alternative erano limitate o del tutto assenti.
Questa riflessione storica ci invita a considerare le pratiche del passato non con pregiudizio, ma con l’intento di comprendere come la giustizia e la ricerca della verità si siano evolute nel tempo, ricordandoci della complessità delle interazioni umane e della costante evoluzione delle nostre società e dei nostri sistemi legali.

Questo articolo ha 2 commenti

  1. Gianluca di Castri

    Si deve anche considerare che la tortura, almeno per quanto concerne l’inquisizione ecclesiastica, era probatoria: l’individuo che avesse superato la prova di tortura, peraltro non indefinita ma determinata in anticipo, avrebbe dovuto essere rilasciato. Solo nei processi per eresia esisteva la possibilità di ripetere la tortura, peraltro una sola volta.

    1. admin

      A me risulta che non potesse mai essere ripetuta e per questo usavano il trucco di considerare la fine della sessione come una pausa.
      Potrei però sbagliarmi ovviamente.

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